Artigianalità e valore dell’unico nell’arte orafa
05
Ago

Artigianalità e valore dell’unico nell’arte orafa

Artigianalità e valore dell’unico nell’arte orafa C’era un tempo in cui l’uomo non aveva bisogno di dover raccontare il valore dell’unicità, poiché questo concetto si collocava inequivocabilmente all’apice di un ordine gerarchico che regolava le qualità degli oggetti.

Tutto ciò che era unico veniva considerato prezioso, originale, distintivo, identificante. Le conquiste della modernità hanno modificato la visione dell’uomo, tanto che alcuni sostengono che la serialità sia una conquista della nostra era, rivoluzionando l’importanza dei valori - soprattutto nell’ambito del gioiello - settore nel quale regna un’evidente confusione proprio in termini di identità.

Così è spiazzante il pensiero di Alba Cappellieri che in un’intervista dichiara quanto segue: Nel 1999 un’indagine di Morgan Stanley classificò tra i beni meno brandizzati la carne, il pane e i gioielli. Soltanto un anno dopo Tom Ford e Donatella Versace si resero conto che il gioiello era un settore del fashion non presidiato, scoperto. Dal 2000 a oggi non c’è casa di moda che non abbia una linea di gioielleria. Da qui una rivalutazione del gioiello come accessorio moda ma anche una rivoluzione del sistema produttivo e distributivo. Così il gioiello storicamente pensato come pezzo unico entra nella dimensione industriale e seriale.

Da questa intervista si evincono una serie di importanti spunti di riflessione. In primo luogo il gioiello appare irrimediabilmente fagocitato dai “beni brandizzati”, svilito quindi come merce di consumo e trattato al pari di carne e pasta.

Non paghi di questo declassamento, che non a caso lo trova collocato spesso sulle bilance di commercianti poco avvezzi alla sua storia, tanto da essere trattato come una qualsiasi merce a peso, sono in molti a confonderlo con l’accessorio moda!

Bisognerà forse tornare indietro nel tempo e ripescare la lucida intuizione di Roland Barthes che ne “Il senso della moda” identificò l’accessorio moda con il termine bijoux, senza incorrere nella confusione di terminologie e anzi restituendo al bijoux un valore che gli è proprio: …regna sul vestito non perché prezioso in sé, ma perché concorre in maniera decisiva a renderlo significante.

E’ fin troppo chiaro che la dialettica unicità-serialità si muova oramai su piani di antitetico interesse. Chi difende la serialità nel gioiello ha poco interesse per i valori della storia da sempre espressi in questa ridotta ma complessa forma espressiva. Né tanto meno mostra di avere a cuore i valori, quasi del tutto cancellati dall’innovazione tecnologica, di quelle abilità manuali che costituiscono l’aspetto fondante della ricerca nel gioiello: il rapporto tra mente, mano e materia.

Di sicuro i fautori della serialità sono attratti da altri prìncipi: le royaltis sulle produzioni illimitate, l’espansione di una industrializzazione che produce solo saturazione; l’omologazione e l’asservimento dei concessionari ai cosiddetti Brand.

Del resto chi si cimenta con il gioiello, senza conoscerne le peculiarità filosofiche, poetiche e tecniche, non può che vedere al solo lato commerciale, quello per l’appunto che sta distruggendo il gioiello.

Appare oggi una sorta di amara profezia quella di J. Anderson Black quando sosteneva, nel 1974, a proposito del futuro del gioiello: “…La gioielleria, oggi, è viva e vibrante: in un certo senso la sua storia è appena cominciata, poiché il suo potenziale come forma d’arte è stato apprezzato e studiato appieno solo all’inizio di questo secolo. Il pericolo maggiore può essere solo la commercializzazione: da pochi anni si parla di gioielleria moderna, e già i negozi sono colmi di imitazioni a buon mercato. Ciò è facilitato dagli attuali metodi meccanizzati di produzione…”.

Di fatto lo sviluppo tecnologico non ha prodotto solo benessere e crescita, come mostra bene l’attuale crisi del sistema globale delle merci. Anzi ha causato danni rilevanti di natura sociologica, sintetizzati molto bene dall’ironica visione di Benjamin Barber che descrive così lo sviluppo tecnologico: trasforma il mondo in Mc Mondo, minaccia il carattere di identità, eliminando il tentativo di personalizzare l’esistenza: una strutturale omologazione economica determina quella dei comportamenti.

Richard Sennet sottolinea la minaccia che le macchine - in particolare il cad-cam - pongono allo sviluppo delle abilità dell’uomo. Questo sistema tecnologico fa saltare la catena della conoscenza, spezza il rapporto tra mente e mano, impedisce il processo di circolarità che si genera nell’artigiano-progettista dal disegno alla fase applicativa dell’idea sulla materia. Nel cad-cam il disegno è affidato agli algoritmi e l’uomo che sostituisce la sua immaginazione e il suo sistema di analisi con la macchina è destinato a perdere i valori della conoscenza trasmessi di generazione in generazione durante i secoli.

Anche Zygmunt Bauman si muove nella stessa direzione: la costruzione di una identità negli scenari della società globale fatica a trovare un fondale solido presso il quale ancorarsi, poiché viviamo in una società liquida, che ha perduto certezze, confini, valori, sostituendo l’identità umana con l’omologazione di ogni genere di linguaggio. La tecnica del computer mette in discussione il concetto, un tempo sacro, della “versione originale“, distruggendo le conquiste e i valori di ogni scoperta: la ricerca, la sperimentazione e l’esito originale e irripetibile di ciò che è destinato a rimanere unico.

Giampaolo Fabris tratta dell’inossidabile certezza del progresso, dell’illimitata fiducia nel potere delle tecnologie, aspetti che si presentano come veri capisaldi della modernità. “Peccato che questo percorso – aggiunge Fabris – non sia più quello da intraprendere per una auspicabile crescita individuale e collettiva: non solo non rappresenta più il percorso da intraprendere ma rischia di trasformarsi in una trappola, in un pericoloso vicolo cieco perché inattuale in una società satura di merci di cui non si ha bisogno”.

C’è anche chi sostiene, come il sociologo De Masi, che l’innovazione tecnologica abbia permesso all’uomo di affrancarsi dalla fatica del lavoro manuale, mentre scopriamo che il telaio della rivoluzione industriale è stato semplicemente sostituito dal computer, rivelando una nuova forma di schiavismo che potremmo definire “tecnologico”.

Nella realtà l’innovazione tecnologica ha creato l’illusione di potersi appropriare di spazi che prima erano terreno esclusivo di una manualità colta e di eccellenza. Infatti la moda ha potuto invadere il terreno del gioiello solo grazie all’uso del cad cam, con i risultati che sono oggi sotto i nostri occhi, ovvero di una trasformazione del mercato che vede il gioiello svilito nella ripetitività e nel declassamento da opera a mero bene di consumo.

Come del resto è sempre più ampio il novero delle figure professionali che si cimentano nel settore della gioielleria, anche se qualcuno, come il celebre Alessandro Mendini, ammette che l’incontro con questa particolare forma espressiva non si rivela un gioco da poco: Come è difficile progettare un gioiello, questo piccolo, terribile oggetto! Il gioiello è un pezzo del corpo di chi lo indossa, ne diviene parte, lo enfatizza, lo isola, lo penetra, lo raggira…

In questo pensiero di Mendini si può leggere il valore dell’unicità, di una esperienza personalizzante che non può essere tradita, per rispetto dell’autore, per le aspettative di chi aspira al desidero di distinguersi.

….Tra tutte le espressioni umane, l’arte e l’estetica sono quelle che più di ogni altra si incaricano della nostra felicità e il gioiello nasce come arte ed estetica, non può quindi essere tradito dalla serialità all’eccesso, solo per i bisogni di una modernità sfrenata che lo svilisce nel magma delle merci inutili del mercato globale.

La standardizzazione produttiva e le specializzazione hanno prodotto due facce di una stessa medaglia: la possibilità di produrre una maggiore quantità di oggetti per i bisogni di una crescente massa di consumatori e l’alienazione di individui che sono stati isolati in processi produttivi specifici e utilizzati più come macchine che come uomini. Così l’abilità manuale va riconquistata come prìncipio di rivalutazione dell’homo faber, come valore di pensiero affidato alla materia nella sua continuità, come essenza unica di un processo meditativo e gestuale. Nell’unicità del pensiero il virtuosismo dell’artista nobilita i materiali e non viceversa, proprio perché la studiata gestualità crea la circolarità di un percorso fatto di esperienze uniche: il progetto passa per il momento qualificante dell’idea, la sperimentazione ottenibile con il disegno o con modelli tridimensionali può derogare dall’originario concetto creativo per quel rapporto sviluppato con la materia che non ha mai fine.

Nulla a che vedere con le progettazioni virtuali al cad cam che non tengono conto della stretta relazione tra materiali e mano: il computer non consente la percezione tattile; l’esperienza del “racconto” del palmo della mano e delle dita che carezzano una materia non ha pari con nessun processo di ideazione virtuale, ogni gesto e ogni materia divengono esperienze uniche, irripetibili, immaginabili solo da chi le compie e riesce a trasmetterle.

Le mani di un artista del gioiello sono guidate dalla memoria e dall’immaginazione, e questo processo non è standardizzabile. Durante l’esercizio del proprio lavoro l’artista può derogare dall’originario concetto creativo, non è ingabbiato dal mezzo tecnologico, è libero di esprimere sé stesso e la sua opera potrà subire modifiche in un potenziale stravolgimento dettato dalla sensibilità, dall’umore, dall’impeto, insomma da tutta una serie di condizionamenti che contribuiscono a costruire il concetto di unicità e a trasferire nella materia quei diversi stati d’animo.

Solo l’esercizio della mano può definire un manufatto unico e fare la differenza rispetto alla fredda e meccanica ripetitività di una macchina, poiché seppur replicato un oggetto realizzato manualmente non sarebbe mai identico, conserverebbe quell’aura giustamente identificata da Walter Benjamin che solo il pezzo unico possiede. Diversamente - sostiene Benjamin - l’opera d’arte nelle sua riproducibilità tecnica è sottoposta ad un processo di decadenza dell’aura. Tanto è unico un quadro quanto labile e ripetibile la foto.

Del gioiello possiamo dire la stessa cosa: ciò che viene replicato perde l’essenza originaria, ma perde anche l’uomo che nel trasferire le sue sensibilità alla macchina decide di demandare uno dei processi più gratificati del suo essere. Riconquistare l’unicità significa rivalutare l’uomo, recuperare il proprio vissuto e trasmetterlo come bene fruibile e godibile. Insomma solo l’unicità potrà salvarci.

Claudio Franchi